"LA PESTE" DI ALBERT CAMUS: RECENSIONE PIÙ INTERVISTA A DON DAVIDE CALDIROLA


Leggere questo classico mi ha impressionato, perché man mano che procedevo trovavo tante di quelle sovrapposizioni con l'attuale situazione da Covid-19 da rimanere a bocca aperta. E l'ho divorato, perché volevo vedere se c'era qualcosa che forse è sfuggito a noi uomini d'oggi e ovviamente volevo conoscere la fine: quando c'è stata,  come è avvenuta, come è stato il rientro alla normalità.
Alla fine devo dire che non so se mi sento meglio (la peste si è conclusa -!- e molto, molto lentamente tutto è rientrato nei ranghi) o peggio (a distanza di decenni il fatto che si sia ripetuta esattamente la storia non mi conforta: per certi versi non impariamo proprio mai niente del tutto).
Il testo è ambientato nella cittadina di Orano, in Algeria, negli anni Quaranta. Da un'improvvisa morìa di topi, ci si rende conto (e noi lo sappiamo grazie al narratore, dottor Rieux) che è in arrivo un'epidemia di peste e, tramite personaggi amici del medico e che rimarranno indelebili nella mente del lettore (anche perché forieri di riflessioni per niente scontate), gli eventi si susseguono esattamente come oggi.
La gente inizia a farsi domande sul tempo e sulla sua qualità; gentilezza e calore umano riaffiorano, ma dilagano anche la solitudine, la fragilità, la vulnerabilità; le giornate si fanno lunghe e inconsapevoli; la morte diventa un affare quotidiano e scomodo; la libertà un'utopia; riacquista un senso il significato di parole come "radici", "memoria", "solidarietà", "fratellanza". Tutto viene sacrificato all'ordine, alle regole: sparisce il sentimento individuale per far posto a quello collettivo. Gli uomini capiscono che hanno bisogno degli uomini e che forse a essere felici da soli c'è di che vergognarsi.
Intanto il governo (chiamiamolo pure così) adotta misure progressive, temporeggia, è preoccupato di non seminare il panico. Manca il materiale sanitario, i medici scarseggiano. I dati all'inizio peggiorano di giorno in giorno e ciò richiede l'adozione di misure eccezionali. I funerali si susseguono ad un ritmo impietoso, aumentano le cremazioni e le bare… vengono addirittura riciclate!
Si pensa anche alla condizione delle carceri.
Il momento più critico arriva quando paradossalmente i decessi iniziano a diminuire e la tensione si allenta. Subentra la prudenza, la lentezza, perché si comprende che distruggere è più semplice che ricostruire: è la fase del cosiddetto sollievo negativo.
E quando infine esplode la gioia, Camus scrive: "Ascoltando infatti le grida di esultanza che si levavano dalla città, Rieux si ricordava che quell'esultanza era sempre minacciata. Poiché sapeva ciò che la folla in festa ignorava, e che si può leggere nei libri, cioè che il bacillo della peste non muore né scompare mai, che può restare per decenni addormentato nei mobili e nella biancheria, che aspetta pazientemente nelle camere da letto, nelle cantine, nelle valigie, nei fazzoletti e nelle carte, e che forse sarebbe venuto il giorno in cui, per disgrazia e monito agli uomini, la peste avrebbe svegliato i suoi topi e li avrebbe mandati a morire in una città felice".

***

C'è un passaggio del libro che mi ha molto colpito ed è quello che riguarda la fede di cui parla padre Paneloux e per capire meglio il quale ho chiesto aiuto a un amico sacerdote, don Davide Caldirola.
Ad un certo punto del libro, infatti, mentre la peste imperversa, si accompagna la morte straziante di un bambino e la fede vira verso posizioni superstiziose, alcuni fedeli, compreso il nostro Rieux, ascoltano la predica di padre Paneloux che più o meno dice così: Anche dalla prova più crudele il cristiano può trarre un bene. La peste non va spiegata, bisogna solo trarne un insegnamento. In momenti così eccezionali o si crede o si nega come in una prova estrema. O Tutto o Niente. Accettarsi non vuol dire rassegnarsi e nemmeno umiliarsi, bensì entrare nell'accettabile di Dio e fare una scelta. Chi sceglierebbe davvero di odiare Dio? Nessuno. Quindi affidarsi a Lui nella consapevolezza delle cose sembra essere la chiave. L'amore di Dio è un amore difficile. E davanti alla morte di un innocente o si perde la fede o la si accetta tutta per quello che è.

Don Davide, ci aiuti a capire?
Mi poni una domanda difficile, quasi impossibile da sciogliere. Provo a reagire con qualche pensiero scombinato che non cerco nemmeno di riordinare.
La prima cosa.
Faccio sempre un'enorme fatica a dire qualcosa del male, del dolore, della morte a partire solo da un ragionamento, da un'idea, da una struttura di pensiero. Mi pare che se ne possa parlare solo dall'interno, che si possa affermare qualcosa solo quando ci portiamo addosso la solitudine e lo strazio della sofferenza, e qui sarebbe bello ripercorrere le pagine di Giobbe, delle sue liti con Dio e con gli amici che provano maldestramente a consolarlo. Per questo non parlo mai molto volentieri di queste realtà: ho sempre un po' la sensazione - anche nei casi più tragici - di guardarle dal di fuori, tanto è imperscrutabile l'abisso del male, di non essere abbastanza dentro nella fatica e nella paura per non poterne afferrare almeno un brandello di senso, se mai c'è.
La seconda cosa.
Il padre Paneloux a cui fai riferimento, nella sua omelia, dice: "anche dalla prova più crudele il cristiano può trarre un bene". Non dice che la prova, intesa qui come sofferenza, sia un bene in se stessa. Men che meno parla di una punizione di Dio. Prende atto. Sa che il mondo geme, soffre. E quando dice che "la peste non va spiegata" spazza via l'idea che se ne possa dire qualcosa soltanto da un punto di vista medico, clinico, biologico, scientifico, perfino teologico o quant'altro, o peggio che si debba andare a ricercare un capro espiatorio, qualcuno su cui gettare la colpa. Certo, occorrono in tempi difficili la forza, la tempra, l'abnegazione e la costanza di chi lotta contro il male, di chi non si tira indietro (e anche in questo senso è bene non parlare di "rassegnazione").  A tal proposito è bello ammirare la forte figura del dottor Rieux, con tutti i suoi dubbi laceranti e il suo coraggio. Ma tutto questo non basta. Si arriva al punto in cui il male alla fine non spiega, non può essere spiegato. Per un credente occorre dire che Dio non l'ha creato, non l'ha voluto. La sofferenza non ha senso. È più corretto dire che in essa, di fronte ad essa, il credente o, più semplicemente, la creatura umana può imparare a rimanere, a fidarsi, a diventare diverso. Può scoprire energie e forze che in tempi più pacati e quieti non sapeva nemmeno di possedere, può imparare a guardare il volto dell'altro con misericordia, può sperimentare una solidarietà nuova, inedita col dolore del mondo e con il Cristo crocifisso. Questo - forse - è quel "trarne un insegnamento" a cui fa riferimento l'omelia del padre.
Quanto alla frase finale che citi, "davanti alla morte di un innocente o si perde la fede o la si accetta tutta per quello che è", credo di poter rispondere soltanto con quello che ho visto in tanti anni di ministero. Ho toccato con mano l'uno e l'altro esito possibile di fronte a una sofferenza e a un distacco. C'è chi ha ritrovato la fede, o l'ha riscoperta, chi l'ha perduta (forse sarebbe più giusto dire "pensa di averla perduta"), chi se ne è allontanato, almeno nelle sue forme di "pratica religiosa". Mi guardo bene dal giudicare l'uno o l'altro esito: da credente cristiano quale spero di essere almeno un poco, sono convinto che Dio riporterà tutti a casa. In ogni caso la morte è il "caso serio": fino in fondo non la si spiega, ci si batte contro, la si accetta, e tutto cambia. Come, non possiamo prevederlo. E credo che abbia ragione padre Paneloux quando dice che "accettare non vuol dre rassegnarsi e nemmeno umiliarsi, bensì entrare nell'accettabile di Dio e fare una scelta".

"La presenza della morte non aveva di fatto realizzato l'uguaglianza", scrive Camus. Che ne pensi, don Davide?
Non so rispondere. Non so se questa dimestichezza con la morte porterà più eguaglianza. So che ci deve rendere tutti più sensibili, più pensosi, più solidali. Ci deve fare riscoprire l'importanza degli altri e dell'altro; può aiutarci a spazzare via l'idea titanica del poter bastare a noi stessi, la pretesa di affermare ad ogni costo il proprio io dimenticando che come esseri umani possiamo pensarci solo "in relazione": con gli altri, col mondo creato, con Dio.

GRAZIE A DON DAVIDE CALDIROLA. 

Commenti

  1. …"entrare nell'accettabile di Dio, e fare una scelta". E' quello che dico sempre ai miei figli quando mi fanno disperare, "ricordatevi che ognuno fa le sue scelte! ". Per cui se mi fanno arrabbiare, poi...Ed è questo il punto, per un credente: la scelta! Fare la scelta giusta! Anch'io penso che Dio ci "riporterà tutti a casa", e questo mi rincuora e mi conforta.

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